In un mondo VUCA, cioè sempre più imprevedibile e con complessità crescenti, si sente l’esigenza di una nuova figura aziendale: il “fusionista”.
Questi ultimi anni sono stati dominati dalla convinzione che il sapere verticale fosse indispensabile per la costruzione di un team aziendale d’eccellenza, divenendo quindi anche una chiave di successo per l’affermazione individuale e professionale. Una conoscenza sempre più approfondita e specializzata però andava spesso a discapito di una cultura orizzontale che avesse una maggiore ampiezza di prospettiva e in grado di mettere in connessione diversi mondi attraverso un approccio globale.
Un interessante articolo di Ivan Ortenzi dal titolo “Aziende, gli specialisti non bastano: serve qualcuno che li coordini” spiega che “Molte aziende stanno ridefinendo le proprie politiche di assunzione e di gestione dei team di progetto privilegiando le figure che possiamo identificare come multi-potenziali, come cognitivi orizzontali, come irrequieti e, a volte, come ribelli”.
Stiamo parlando del “fusionista”, termine mutuato dalla politica ma che in questo caso viene applicato al mondo delle aziende e dell’economia. Una figura che proprio perché va meno in profondità è capace di avere una visione ampia, orizzontale appunto, in grado di mettere in relazione tra loro tanti settori profondamente diversi e lontanissimi, all’apparenza difficilmente accostabili.
Si introducono quindi modelli organizzativi, di collaborazione e di carriera all’interno delle aziende mai immaginati prima, dove potremmo trovare insieme artisti e biologi, economisti e filosofi, scienziati e poeti per affrontare lo stesso problema con approcci diversi.
Il ruolo del fusionista è quello di collegare mondi distanti che spesso operano a compartimenti stagni, mettendo in connessione le differenti aree della tecnologia, dell’umanesimo, dell’arte, dell’ingegneria, della ricerca e della scienza. È un ponte tra i diversi saperi e soprattutto tra i diversi punti di vista, in cui la visione ampia, orizzontale, prevale sulla profondità della conoscenza perché i problemi complessi richiedono una risposta che sappia armonizzare  aspetti differenti.
Tutto ciò sta già accadendo nei campi emergenti della bio-fabbricazione, delle bio-tecnologie e della bio-medicina, in cui il design dialoga con la scienza, la sostenibilità con l’innovazione, il fisico con il digitale.
È la rivincita delle scienze umanistiche che in questi anni sono state appannate da quelle scientifiche, tecnologiche ed economiche?
Forse, chissà, quello che è certo è che per le sfide globali che ci attendono nelle aziende servono i filosofi, i poeti e i ribelli.
Leonilde Gambetti